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"Fatale ribelle Fanny"

Musa e compagna di Truffaut, diva, regista. Tre figlie da tre uomini diversi, a 65 anni, Ardant continua a sfidare le convenzioni, sullo schermo e nella vita: "Non ho mai saputo amare con moderazione"


Le sue mani non si fermano mai. Quando parla Fanny Ardant gesticola, schiocca le dita per sottolineare un aggettivo, «fulgurant», poi intercala l’italiano, «ecco, sì», tormenta le unghie come un’adolescente. È arrivata con un chiodo nero e occhiali scuri dentro a un cafè del boulevard Saint-Germain, nel quartiere in cui vive. È un pomeriggio di sole. «Con la luce, Parigi diventa bellissima. Guardo i tetti dei palazzi, i ponti, e mi dico che appartengo profondamente a questa città, anche se l’Italia è la mia seconda patria affettiva». È l’icona della femme fatale, quando si pensa a un’attrice francese vengono in mente Catherine Deneuve e Fanny Ardant. La bionda e la bruna, entrambe hanno con il nostro paese legami famigliari, cinematografici. «Amo gli uomini, non credo alla parità», confessa subito Ardant, con la sua magnifica insolenza. «Non ho aspettato il femminismo per emanciparmi. Sono nata libera. Ho sempre ammirato gli uomini della mia famiglia, poi quelli con cui ho vissuto. Impossibile per me escluderli o mettermi in una posizione di superiorità». Da piccola ha girato il mondo, insieme a suo padre militare. Ma odia viaggiare. «Non capisco chi va alle Maldive. Che senso ha? C’è già l’Italia che è il posto più bello del mondo, ed è così vicino. Se penso a una vacanza, penso a Roma, a Napoli...». La Signora della porta accanto è una ragazzina di sessantacinque anni che ha presentato qualche mese fa il suo secondo film da regista, Cadences Obstinées, con Asia Argento e Franco Nero - ancora l’Italia - e ha portato in scena una pièce trasgressiva di Marguerite Duras, Des jour nées entières dans les arbres. Ardant interpreta una donna che rivede per l’ultima volta il figlio prediletto, una sorta di gigolò che passa le notti al gioco d’azzardo nei nightclub, e a cui lei perdona sempre tutto. «Hanno una relazione forte, incestuosa, che urta la pubblica moralità. Il testo teatrale aveva fatto già scalpore negli anni Sessanta. Venne censurato perché era intollerabile l’idea di una madre che non accetta i diktat della società o i manuali di psicologia. Lei non giudica. Ama suo figlio in modo irrazionale. È come il sangue che scorre nelle vene». Un personaggio che non accetta di adeguarsi alla norma e dice: «Quanto sono tristi le esistenze sicure, solide». Una frase che l’attrice sottoscrive. «Sono sempre stata fuori dal branco, provo ammirazione per i marginali, per chi sceglie di stare dalla parte sbagliata. Opporsi, ma a cosa? Non importa. L’importante è rimanere uno spirito libero. So che abbiamo una vita sola. Non m’interessa ricevere medaglie, potere, essere accettata dalla gente perbene». 

La madre “degenere” immaginata da Duras, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, ha cresciuto il figlio senza mandarlo a scuola, lasciandolo giornate intere ad arrampicarsi sugli alberi. «Duras amava sfidare i tabù, metteva dinamite nelle sue opere. Oggi combatterebbe contro il politicamente corretto, il pensiero unico che vuole farci andare tutti nella stessa direzione, e per il quale fumare una sigaretta è come sparare con un kalashnikov». Ardant, che ha avuto tre figlie da tre compagni diversi, si riconosce in una maternità “assoluta”, che non deve corrispondere alle regole imposte dall’esterno. «Potrei difendere la mia famiglia contro la legge, contro tutto. Preferisco sbagliare per troppo amore che per troppo poco». Il cuore, la sua bussola. «Non si può amare con moderazione. È la pulsazione della vita. Avevo lavorato con Duras nel suo film Musica. Mi aveva detto: “Nessuna storia d’amore resiste a uno sconosciuto che entra in un bar”».  

Uno dei suoi grandi colpi di fulmine non è avvenuto in un bar, ma attraverso il piccolo schermo. Ardant recitava nello sceneggiato televisivo Les Dames de la côte di Nina Companeez. François Truffaut la vide e se ne innamorò a prima vista, offrendole la parte della misteriosa Signora della porta accanto e poi Finalmente domenica!. Nel 1983, un anno prima della morte del regista, nasce Joséphine, seconda figlia di Ardant. L’attrice arriva allora sui primi set in Italia, cominciando un’altra, lunga avventura sentimentale. Da Ettore Scola (La Famiglia) ad Al di là delle Nuvole di Michelangelo Antonioni, passando per Franco Zeffirelli (Callas Forever) e Mario Martone (L’odore del sangue), ha lavorato con tanti registi italiani. È stata scelta da Paolo Sorrentino per Il Divo e per un cameo ne La Grande Bellezza, entrambi coprodotti dal suo ultimo compagno, Fabio Conversi, con cui ha avuto nel 1989 la sua terza figlia, Baladine. L’Oscar al regista napoletano che «filma da Dio», lo dice in italiano, non la sorprende. Anzi, prova un certo fastidio per il coro di entusiasmi dopo la premiazione. «Un Oscar è come un gelato. Fa piacere, certo. Ma Sorrentino era un regista straordinario anche prima che se ne accorgessero gli americani». Sono ormai trent’anni che va e viene tra Parigi e Roma, è la più italiana delle attrici francesi. «Ho incominciato a fantasticare sul vostro Paese da ragazza, attraverso la poesia e la letteratura. E poi quando sono arrivata la prima volta a Roma sono stata rapita. L’odore, i rumori, le voci delle persone che si chiamavano nelle piazze, le giornate in Vespa. Incontrare Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni era come avvicinare dei principi. Facevano lo sforzo di parlare francese, con quella “r” arrotata così seducente. Ero estasiata. Avevano quell’intelligenza ironica. I francesi si prendono così sul serio, sono cartesiani». Del nostro Paese ama davvero tutto, compresi i cinepanettoni dei fratelli Vanzina. «Mi fanno molto ridere. Il figlio di De Sica, come si chiama? È bravissimo. Non potrei mai recitare in un loro film, non per mancanza di voglia ma perché sarei fuori registro».


Ardant ha fatto tanti ruoli drammatici e qualche commedia, come Pédale douce, con cui ha vinto il premio César come miglior attrice. La sua è stata una vocazione tardiva, dopo studi in scienze politiche all’università di Aix-en-Provence. Era già trentenne quando Truffaut la rivelò al mondo. «A lungo ho rimpianto di non aver fatto politica. Ora non più, ho un’idea troppo romantica della militanza. Per governare bisogna fare compromessi. Lo capisco, ma non voglio partecipare. Ho anche smesso di votare. Forse è puerile, non mi permetterei mai di consigliare ad altri di fare come me». Le donne in politica? «È come al cinema. Non bisogna giudicare un attore per il suo sesso o per la sua estrazione sociale, così come in una sceneggiatura è riduttivo definire un personaggio “un borghese” o “un proletario”. Ci può essere un borghese stupido o illuminato e lo stesso vale per un proletario. Prima di tutto c’è la persona. Per questo non credo alla parità imposta in politica. Se ci sono tre uomini capaci e due donne che non lo sono, non vedo perché dovrebbero essere elette le donne». Si ribella anche alla sua immagine di femme fatale. «Non bado alle apparenze. È una maschera. Quando devo fare la promozione di un film affronto i giornalisti come in una partita di ping pong. Anche se mi criticano, sto al gioco. Solo le persone che mi conoscono, che mi vogliono bene, possono ferirmi».
 
L’anno scorso si è tinta per una volta i capelli di biondo per interpretare una donna matura che seduce un trenntenne in Les Beaux jours di Marion Vernoux. «Cougar? Non so neanche cosa significhi questa parola. È un’altra etichetta imposta dalla società. Con l’età, sono diventata più radicale. Coltivo la mia indignazione. È molto stancante, certo. Ma i non allineati come me formano una piccola repubblica sotterranea. Ci riconosciamo all’odore e stiamo alla larga dagli snob». Non, je ne regrette rien. «Potrei anche cantarlo», scherza Ardant, che ha duettato con Alex Beaupain in una recente canzone, Baiser tout le temps, con un sottile doppio senso erotico. «Il peggio che mi potrebbe accadere è voltarmi e accorgermi che non ho più i sogni di quando avevo quindici anni. Proverei una grande tristezza. È una scelta che si paga. A volte ti ritrovi da sola, a volte ti prendono per pazza». È come la favola del lupo e del cane di La Fontaine, dice. Un lupo magrissimo e affamato che incontra in un prato un cane «grasso, tondo e bello». Il mastino gli racconta che è accudito ogni sera, viene pettinato e lavato, ha cibo a volontà, e propone all’animale selvatico di abbandonare i boschi e la sua «vita infame, sempre in guerra». Il lupo comincia a seguirlo ma vede qualcosa. «Che roba è questa?», chiede. «La catena alla quale mi legano ogni giorno». Il lupo,anche se magro e sporco, scappa via. «È una favola del Seicento. In fondo, da secoli l’umanità si divide in due», conclude Ardant. «Quando sei infelice, triste, dimentichi che è il prezzo da pagare perché, in un momento della vita, hai avuto il coraggio di andare in un’altra direzione. Eppure non ho dubbi. Sono un lupo». 

Nota Original La Repubblica Italia  

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